L’ operazione Thunderbolt a Entebbe

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Domenica 27 giugno 1976 dall’ aeroporto di Tel Aviv decollò il volo Air France 139 per Parigi con scalo ad Atene. Nella capitale greca si imbarcarono 58 passeggeri, presero posto sull’aereo senza che ci fossero stati controlli particolarmente rigidi ed efficaci. Non vi furono agenti di sicurezza alle perquisizioni e nessun addetto al metal detector. Tra di essi c’erano anche due terroristi tedeschi e due palestinesi. Si trattava di un commando con un piano preparato da sei mesi, studiato nei minimi dettagli e che non poteva fallire. Superata la fase di decollo il gruppo terroristico entrò in azione. Il terrorista tedesco Wilfred Böse entrò in cabina di pilotaggio mentre gli altri tenevano a bada i passeggeri. Böse ordinò al comandante Bacos di fare rotta su Bengasi, in Libia. Avvenuta l’ operazione di atterraggio in terra libica l’ aereo fu circondato da autoblindo che diedero cibo ai prigionieri e rifornimento di carburante. A Bengasi i terroristi rilasciano una persona, Patricia Hayman, che fingendosi incinta si procurò un taglio all’ inguine per simulare un emorragia. Convinse così il commando a lasciarla scendere dall’aereo. Appena giunta a Londra la signora venne raggiunta dagli agenti del Mossad. Il Mossad è l’ agenzia di Intelligence israeliana posta alla sicurezza nazionale. In quell’ incontro si ebbero parecchie informazioni su chi fossero i terroristi e come fossero armati. L’ aereo ripartito da Bengasi fu condotto dietro l’ imposizione dei dirottatori a Entebbe, in Uganda. A capo dell’ Uganda c’era il dittatore Idi Amin che tempo prima aveva rotto le relazioni con Israele. Ad accogliere l’ aereo dirottato c’erano altri palestinesi e l’ esercito ugandese.  Lunedì 28 giugno 1976 gli ostaggi furono fatti scendere dall’ aereo e condotti in un terminal dell’ aeroporto. Idi Amin andò personalmente all ‘aeroporto e facendosi filmare da una troupe televisiva, cercò di porsi come mediatore. Il suo intervento sembrava volto a tranquillizzare gli ostaggi dicendo che sarebbero stati liberati se Israele avesse assecondato le richieste dei terroristi.  Il dittatore acconsentì all’ anziana passeggera Dora Bloch di farsi curare in un ospedale di kampala. I passeggeri del volo 139 ancora in ostaggio erano quindi 244 per la maggior parte francesi e un centinaio israeliani. Il commando fece pervenire un elenco di terroristi nelle carceri di Francia Israele e Germania da scambiare con i passeggeri del volo 139. Venne fissato un ultimatum per il 1 luglio alle ore 14 dopo di che se non fossero state accettate le richieste i terroristi avrebbero ucciso gli ostaggi. Israele si trovò in difficoltà. Cercò di guadagnare tempo cercando informazioni tramite il ruolo di Amin. Si seppe che fu addestrato in Israele anni prima e venne chiamato un ufficiale che lo aveva conosciuto bene, Burka Bar Lev, per iniziare un negoziato. Nel frattempo durante quelle ore si verificarono anche situazioni strane. Uno dei dirottatori era nato in Messico e uno degli ostaggi lo riconobbe perché erano cresciuti nello stesso luogo in Messico. Mercoledì 30 giugno 1976 47 ostaggi non ebrei vennero liberati  e imbarcati su un aereo Air France. Il Mossad ottenne dalla Francia di raccogliere informazioni dagli ostaggi liberati. Gli agenti segreti israeliani acquisirono preziose informazione come quella che parte dell’ aeroporto fu costruito da una ditta israeliana la Solel Boneh. Il servizio segreto israeliano si assicurò così le planimetrie e iniziò a preparare il piano per intervenire. Si rese necessaria un’ azione con effetto sorpresa. Pubblicamente il governo israeliano nella persona del suo leader Rabin cercava la trattativa, segretamente invece si stava preparando un intervento militare. Venne richiesta ad Amin, tramite il colonnello Burka Bar Lev, una proroga dell’ ultimatum che venne concessa per il 4 luglio. Il tempo scivolava via inesorabile e occorrevano delle immagini aggiornate dell’ aeroporto di Entebbe. A questo scopo gli agenti israeliani si affidarono ad un ex agente inglese, amico di Israele, che viveva in Kenya e che possedeva un aereo personale. Mc Kenzie aiutò un pilota del Mossad a sorvolare l’ aeroporto per scattare delle fotografie. Il comando dell’ azione israeliana fu affidato a Dan Shomron e a Yoni Netanyahu. Quattro C 130 Hercules avrebbero raggiunto Entebbe e raccolti gli ostaggi, dopo il rifornimento a Nairobi sarebbero tornati a Tel Aviv. Per realizzare ciò gli israeliani costruirono un modello a grandezza naturale del terminal e si esercitarono diverse volte la sera del 2 luglio. Non si poteva sbagliare. Ogni squadra doveva sapere alla perfezione cosa avrebbe dovuto fare. All’ occorrenza il piano era così ben congeniato che vennero utilizzate delle mercedes per trasportare le unità d’ assalto. Quel tipo di auto solitamente portava personale politico e i soldati ugandesi si sarebbero messi sull’ attenti e non avrebbero opposto resistenze. Sabato 3 luglio 1976 partì la missione. Per evitare di essere intercettati dai radar i quattro hercules volavano a bassa quota. Dopo otto ore di volo, gli aerei atterrarono senza farsi notare nei pressi della baia del lago Vittoria, al di sotto della portata del radar e a luci spente, sfruttando la particolare morfologia del territorio dell’aeroporto. Un leggero promontorio nascose l’ incedere silenzioso degli Hercules a cui i piloti spensero i motori. L’ aereo si avvicinò al terminal sempre senza fare rumore. Alle 23.01 le mercedes scesero dalla rampa e si portarono verso il punto prestabilito. Un soldato ugandese però si insospettì e chiese di controllare. Iniziò il conflitto a fuoco che diede l’ inizio all’ assalto del terminal. Gli israeliani uccisero tutti i terroristi nel giro di 50 secondi. I soldati ugandesi continuarono a sparare e colpirono a morte Yoni Netanyahu. Sotto quella pioggia di proiettili i passeggeri vennero condotti sull’ Hercules. Oltre a Netanyahu morirono tre ostaggi. Prima di decollare i reparti speciali israeliani distrussero tutti gli aerei Mig ugandesi fermi sulla pista. 58 minuti dopo gli ostaggi stavano facendo ritorno a casa. La signora Dora Bloch, nei giorni seguenti, subì la vendetta di Amin e fu uccisa. Domenica 4 luglio 1976 i passeggeri del volo air France 139 tornarono a Tel Aviv in libertà. L’operazione di Entebbe fu uno dei risultati più incredibili realizzati dai reparti del Mossad.

Ettore Poggi

 

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4 maggio 1949

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La nebbia avvolgeva la collina di Superga, si disse che non si vedesse a 30 metri. La pioggia scendeva forte. Il vento squarciava il silenzio. Furono questi tre elementi naturali ad assistere alla tragica fine del Grande Torino. Il Torino stava tornando in Italia a bordo di un aereo, un fiat g.212, da Lisbona dopo avere giocato una partita amichevole. Il capitano della squadra lusitana Francisco Ferreira aveva invitato l’ amico rivale Valentino Mazzola per giocare una partita con le rispettive squadre. Dopo aver fatto scalo a Barcellona, un breve incontro in aeroporto con i giocatori del Milan, la squadra granata riprese il viaggio per Torino. Alle 17.05 nella nebbia, nella pioggia e nel vento avvenne lo schianto con la base della basilica di Superga. Il commissario tecnico della Nazionale era Vittorio Pozzo, e risiedeva a Torino. Il ct più vincente della storia italiana con i mondiali 34 e 38 e le olimpiadi del 36. Negli anni 40 costruì la nazionale con dieci giocatori del Torino e uno della Juventus. Quel giorno fu chiamato lui per riconoscere i corpi dei giocatori granata. Il Grande Torino non c’era più. Per meritarsi quella definizione basti menzionare che quella squadra vinse cinque campionati consecutivi dal 1943 al 1949, fatto salvo il 1945 non disputato. Imponendosi per gioco reti e vittorie, prestazioni da leggenda. Il contesto storico in cui quel Torino si affermò contruibuì a rendere la leggenda unica e irripetibile. Nel 1939 Ferruccio Novo acquistò il club granata. Nel 1941 la guerra era già iniziata l’ anno prima e Novo iniziò a costruire la squadra acquistando i giocatori Ferraris Menti Gabetto Bodoira e Borel che si aggiunsero a Ossola già del club dal 1939. L’anno successivo completarono lo squadrone con Loik e Mazzola per la cifra stratosferica di allora di un milione e duecento mila lire e la cessione di Bodoira e Petron. I giocatori di calcio della serie A dell’ epoca non erano mimamente paragonabili con quelli di oggi. Valentino Mazzola tutte le mattine percorreva in bicicletta 30 km da Cassano al Portello a Milano dove faceva l’operaio all’ Alfa Romeo, la sera sempre in bicicletta tornava a casa con qualsiasi condizione meteo. Durante la Guerra i giocatori venivano mandati a lavorare in fabbrica e a volte andavano a giocare in provincia dove trovavano anche scorte di cibo. I campionati che si susseguirono accompagnarono i principali eventi che cambiarono l’ Italia per sempre, la fine della Monarchia nel 1946 e la nascita della Repubblica, la nuova Costituzione del 1948. L’anno dopo il fatale 4 maggio 1949. La FIFA di recente ha stabilito che il 4 maggio fosse la giornata mondiale del gioco del calcio. Fu detto che una squadra così non sarebbe mai potuta invecchiare per consegnarsi all’ eternità da vincente, andando oltre il suo tragico destino terreno.

Ettore Poggi

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Undici leoni in campo: gli invincibili del Grande Torino

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Con il termine “Grande Torino” si intende la società calcistica Torino F.C., la quale visse un periodo di splendore compreso negli anni ’40: basti pensare che della Nazionale Italiana di quegli anni, facevano parte tutti i 10 titolari del Grande Torino eccetto il portiere della Juventus, Sentimenti IV. Quella del 1941/42 fu una rosa molto competitiva e collaudata, la quale partecipò alla Coppa Italia e alla corsa allo scudetto. La sfida si ripeté l’anno dopo, quando il Toro vinse il primo scudetto del ciclo del “Grande Torino”. Nel 1944, nonostante la guerra, il calcio andò avanti, ma con dei gironi divisi tra nord, centro e sud. Nella prima fase a gironi, giocato al Settentrione, i Granata si inserirono nel girone Ligure-Piemontese. La squadra sconfisse per 7-1 Genoa e Biellese, per 7-0 l’Alessandria, per 8-2 il Novara e per 5-0 la Juventus. Nel girone di semifinale, i Granata affrontarono dei derby contro squadre lombarde, dove arrivò una sconfitta per 1-3 e un pareggio per 3-3, ma poi arrivò la vittoria aggiudicandosi così la fase finale a tre. Il Toro alla fine perse il torneo, complice un incontro non ufficiale della Nazionale. Gli spezzini, che venivano dal pareggio 1-1 contro il Venezia, nell’incontro decisivo prevalsero 2-1, rendendo dunque inutile la successiva vittoria dei Granata per 5-2.

Dopo la guerra, il 14 ottobre 1945 ripartì il campionato, con lo scudetto cucito sulle maglie dei Granata. Subito il Toro iniziò una marcia travolgente nel suo girone, portandolo a battere tutti i record. Del Grande Torino dobbiamo anche ricordare il famoso “quarto d’ora granata”, che era un momento particolare della partita, perché a 15 minuti dalla fine della gara, Oreste Bolmida, un tifoso particolare, suonava tre squilli di tromba e da qua il Toro cambiava il modo di giocare e l’assetto tattico. Il risultato più clamoroso è stato nel 1946 allo stadio Nazionale, Roma-Torino 0-7. Nel 1949, ci fu l’ultima partita per il Grande Torino, il quale andò a Lisbona per giocare un’amichevole contro il Benfica. Le squadre mostrarono uno spettacolo degno del loro blasone, ma purtroppo la partita terminò 4-3 in favore del Benfica. Al rientro da Lisbona, il 4 maggio 1949, l’aereo che trasportava il Toro trovò una fitta nebbia che avvolgeva tutta la città. Alle ore 17.05, l’aeroplano si schianto’ contro il terrapieno della Basilica di Superga, provocando la morte istantanea di tutte le trentuno persone che erano a bordo. Per la fama della squadra, ciò ebbe una grande risonanza sulla stampa mondiale. Il giorno dei funerali quasi 1 milione di persone vi prese parte per dare l’ultimo saluto ai ragazzi. Così il Toro fu costretto, nelle ultime quattro partite del campionato, a schierare gli 11 del settore giovanile, e lo stesso fecero gli avversari di turno. Ricercando informazioni sull’accaduto sono rimasto molto colpito nel leggere un articolo che riporta le parole pronunciate dal cappellano della Basilica subito dopo l’incidente: «Ho sentito un rombo, paurosamente vicino, poi un colpo, un terremoto. Poi il silenzio. E una voce di fuori:” È caduto un apparecchio!».

Davide Aimar (11 anni)

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La prima banda partigiana: Italia Libera

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Cari vecchi Partigiani, siete stati degli eroi non tanto per la lotta armata, ma innanzitutto per il coraggio e la dignità di ribellarvi e dire no al potere autoritario e che in parte era anche guerrafondaio. Un ragazzo della guerra Partigiana”. Queste righe si possono leggere su un foglio appeso alla porta di una baita di Paraloup, letteralmente “difesa dai lupi”,  piccola borgata alpestre del comune di Rittana, paese appartenente alla valle Stura che si trova in provincia di Cuneo.

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Foglio visibile all’esterno di una baita della borgata Paraloup

 

 

 

Questo luogo a 1.360 metri di altitudine ha assunto una certa rilevanza storica poiché è stata la sede della prima banda partigiana di Giustizia e Libertà, una delle formazioni partigiane più numerose dopo le “Brigate Garibaldi”. Contraddistinti dal fazzoletto verde, gli uomini della brigata GL Italia Libera erano guidati da carismatici personaggi tra i quali Giorgio Bocca, Duccio Galimberti, Dante Livio Bianco e Nuto Revelli, per citarne solo alcuni.

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Pietra visibile all’arrivo al Quiot Rosa, importante punto di comunicazione

 

 

 

 

Il 20 settembre 1943 il primo nucleo partigiano organizzato in Piemonte (e probabilmente in Italia) si mosse verso la borgata Paraloup, ottimo punto di osservazione e di controllo sulla pianura cuneese. La borgata divenne presto un accampamento fisso e anche un punto di arruolamento, comprendente dormitori e mense.

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Le baite appartenenti alla borgata di Paraloup sono state ristrutturate ed in parte adibite a Museo della Memoria

 

 

 

La culla delle prime formazioni partigiane accolse centinaia di giovani impegnati nella Resistenza, uomini e donne accomunati da un unico ideale: la difesa dei propri territori per assicurare un futuro libero da ogni dittatura.

Oggi Paraloup, oggetto di un attento recupero architettonico grazie al contributo della fondazione “Nuto Revelli”, è facilmente raggiungibile con una breve passeggiata di 30 minuti dal Chiot Rosa, dove si può lasciare la macchina. Dal posteggio si aprono poi una serie di “Percorsi della Resistenza”, sentieri che solo settantanni fa erano percorsi da uomini e donne alla ricerca di libertà e di speranza, tutti con il desiderio di ricostruire un mondo migliore.

Maria 

 

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Una donna che non ha paura: Edda Ciano Mussolini

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1925. Un’adolescente di quindici anni ha appena scoperto che la mamma ha una relazione amorosa con il capostazione del paese. La ragazza prova vergogna e disapprovazione per il comportamento della madre. Non sa ancora che la vita, talvolta, porta donne e uomini a cercare consolazione, rivalsa, o semplicemente una forma d’amore al di fuori dalla vita matrimoniale. E condanna per questo la madre, spesso violenta e scontrosa, una mamma dal ceffone facile, sempre chiusa in cucina. Per la ragazza è semplicemente inconcepibile pensare che il papà possa essere tradito. Sa bene che suo padre ha tradito e tradisce spesso la mamma, soprattutto durante le sue lunghe assenza per lavoro, ma questo non conta. Lui può, lui può tutto.
Questa è la storia di Edda Ciano Mussolini. Nata nel 1910, vive spesso lontana dal padre. Tuttavia tra i due si instaura un legame profondo, fatto di silenzi ricchi di significato. E’ il padre che le insegna che non dovrà mai farsi vedere piangere in pubblico, e soprattutto non dovrà mai avere paura.
La figlia prediletta del duce, la primogenita, è una ragazza capricciosa e testarda, irrequieta e bizzarra, l’unica che riesce a tenere testa al padre e alla quale è permesso di farlo. I genitori vedono nel matrimonio l’unico freno naturale alle intemperanze di questa ragazza intelligente e ribelle: cominciano così a proporre ad Edda una serie di giovanotti con ottime referenze, che vengono scartati uno dopo l’altro. La giovane si invaghisce di un ragazzo ebreo, che presenta alla madre: Rachele, per dispetto, prepara un pranzo a base di prosciutto, cosa che non scompone affatto il pretendente. Benito rifiuta ovviamente di concedere la mano della propria prediletta ad un ebreo, e tra i due la relazione finisce. Sarà tuttavia Edda a far liberare, una decina di anni più tardi, il suo amico ebreo dal campo di concentramento in cui era finito a causa delle vicende razziali.
Edda sposa a Roma il 24 aprile 1930 il conte Galeazzo Ciano, conosciuto ad un ballo pochi mesi prima. Un uomo che Edda definirà perfetto, nonostante sia ancora ella stessa a descriverlo come un marito dalla “mano lesta” e soprattutto come un gran “tombeur de femmes”. La figlia di Mussolini soffrirà molto a causa dei tradimenti del consorte, fino a quando, dopo aver passato un’intera notte tentando invano di ammalarsi di polmonite per spaventare il marito, deciderà che qualsiasi cosa fosse successa lei non sarebbe stata mai più gelosa. Edda e Ciano continuarono a vivere insieme, tra alti e bassi, sostenendosi come fratello e sorella, ma non smisero mai di tradirsi a vicenda.
Scoppia la guerra: Edda lavora fin da subito come infermiera crocerossina, prima a Torino, poi in Albania, dove la sua nave viene affondata da un siluro inglese, ed infine in Sicilia, durante lo sbarco degli Alleati.
Il 25 luglio 1943 la contessa si trova in vacanza al mare con i figli, quando riceve un messaggio del marito Ciano che le chiede di rientrare subito a Roma. Il duce è caduto. Edda si prodiga per trovare un posto sicuro per tutta la famiglia, tentando prima in Vaticano, poi rivolgendosi direttamente ai tedeschi: questi ultimi offrono alla famiglia Ciano una via di fuga per la Spagna, ma si rivelerà invece una trappola che li condurrà in Germania, prigionieri dei nazisti. Il 18 ottobre 1943 Ciano viene arrestato dai funzionari della nuova Repubblica Sociale di Salò e richiamato in Italia: dopo aver messo al sicuro i figli in Svizzera, la donna farà di tutto per cercare di liberare il marito e per evitargli la condanna a morte. Edda tenta di scambiare i diari dell’uomo (anti tedesco) per ottenere in cambio la liberazione del marito; ma Ciano viene barbaramente fucilato l’11 gennaio 1944 a Verona insieme agli altri “traditori”.
Per Edda questo è l’inizio della fine. Nell’ultimo incontro con il duce avvenuto qualche settimana prima, Edda disse a Benito che se non avesse interceduto per Galeazzo lei si sarebbe considerata orfana di padre. La donna è in collera anche con la madre, che non ha mai preso le parti di Ciano in passato, e men che meno in questa circostanza.
Edda si ricongiunge con i figli in Svizzera, sola, e si sposta da una casa di cura all’altra. Ha con sé i diari del marito, che diverranno poi una fonte storica di primaria importanza per ricostruire i fatti del fascismo dal ’36 al ‘43. Ed è in Svizzera che Edda saprà, via radio, della fine terribile di suo padre, della vergognosa fine di piazzale Loreto, del duce appeso a testa in giù con la propria amante Claretta Petacci.
E’ la resa dei conti: Edda viene richiamata in Italia, e con grotteschi capi d’accusa viene mandata al confino a Lipari. Beneficiando di un’amnistia, riesce a ricongiungersi con i figli dopo un anno di distacco, e comincia la battaglia per ottenere la salma del padre e i beni di famiglia, battaglia che dopo lunghi anni riuscirà a vincere.

L’unica cosa che Edda dichiara di aver fatto bene è l’essere riuscita, col tempo, a ricongiungere ciò che rimaneva della sua famiglia: la mamma e la suocera, i figli e le nonne. Donna inflessibile ed autoritaria, chiamata “l’Edda” dai suoi stessi figli, ma al tempo stesso donna fragile e vulnerabile, Edda soffrì di sofferenze inimmaginabili, ma seguendo il consiglio del padre, “mai avere paura”, ha avuto il coraggio, dopo i fatti terribili che hanno segnato la sua esistenza, di vivere una vita quasi normale.

Maria

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