Anschluss: così Hitler si prese l’Austria

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Il 13 marzo 1938 si conclude il processo di annessione diretta dell’Austria alla Germania, il cosiddetto “Anschluss”. L’operazione, iniziata solo il giorno precedente, consiste nell’entrata in territorio austriaco da parte dei soldati tedeschi, nell’occupazione delle città e nell’assunzione del pieno controllo di tutte le funzioni statali. Le truppe austriache, nel complesso, non oppongono la minima forma di resistenza e l’Austria cade, fin troppo facilmente, nelle mani naziste, tra lo stupore dei gerarchi e dello stesso Fuhrer. L’Europa si limita ad un richiamo verbale, considerando tuttavia l’Austria quasi “un’estensione territoriale” della stessa Germania, mentre Mussolini avvisato con un telegramma dallo stesso cancelliere del Reich, si ritrova così l’esercito tedesco al Brennero. Per Adolf Hitler, l’Austria è una conquista territoriale fondamentale, per le seguenti ragioni. Primo, si tratta della sua nazione di origine, dato che egli nacque a Branau, un piccolo paesino austriaco di frontiera situato proprio al confine con il territorio tedesco: Hitler predilige fin da adolescente la Germania all’Austria, ne coglie la grandezza dello Stato e del suo popolo, la sua potenza intrinseca e il fascino del mito del “Volk”. Secondo, l’annessione è fondamentale per l’ampliamento dello spazio vitale tedesco: già nel suo Mein Kampf, Hitler elenca quali sono i passi necessari per espandere la Germania e farne così lo stato dominante in Europa e nel mondo. Terzo. in questo modo il dittatore tedesco può esercitare una forte pressione nei confronti dell’Italia, stanziando le proprie truppe alla frontiera sulle Alpi. L’Europa è ben consapevole che Hitler non si fermerà all’Austria, infatti nel giro di pochi anni verranno conquistate e annesse la Cecoslovacchia e la Polonia. Solo dopo l’invasione di quest’ultimo stato, avvenuta il 1 settembre 1939, l’Europa interverrà controllo il dittatore tedesco, ma sarà troppo tardi. Si sarebbe potuto prevedere e fermare Adolf Hitler? Si, sarebbe bastato leggere il Mein Kampf ed interpretarlo non come il suo diario di pensieri, ma come il suo programma politico che il Fuhrer metterà in atto punto per punto: invasioni, guerra, sterminio, genocidio. Ma, ad Inghilterra e Francia, faceva comodo in quel momento che uno stato forte, deciso, bellicoso si imponesse facendo da argine alla “preoccupante” potenza sovietica. Nessuno calcolò la furia e la non-follia di Hitler, ma il suo lucido e trasparente piano di morte e distruzione. L’Europa pagò a caro prezzo quest’errore perdendo, per sempre, il ruolo di continente egemone, a favore degli Stati Uniti.

Per ora, Hitler sfila sulla sua auto scoperta, tra ali di folla festante, il suo cuore trabocca di gioia e di vendetta, ci è riuscito: quel ragazzotto austriaco che vagabondava per le strade senza una meta, schivato da tutti, mai apprezzato per il suo talento da artista che egli pretendeva di avere, quel ragazzotto ora è acclamato e osannato da tutti. Per un attimo il Fuhrer penserà che gli può bastare così, ma è solo un momento, la Cecoslovacchia torna nei suoi occhi.

Roberto Rossetti

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Claretta Petacci: quando l’amore vince la ragione

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Clara Petacci, per i famigliari Claretta, nasce a Roma il 28 febbraio 1912. Fin da bambina, in pieno regime fascista, Clara idolatra il duce, che incontra per caso all’età di vent’anni. Mentre si sta dirigendo verso Ostia con la famiglia nell’aprile del ’32, la macchina dei Petacci viene superata dall’Alfa dell’allora cinquantenne Benito Mussolini: la ragazza riesce ad attirare l’attenzione del duce ad una rotatoria, scambia alcune parole con l’uomo più potente d’Italia e riesce ad ottenere una prima udienza privata. Comincia così una relazione tra i due: inizialmente si tratta per lo più di innumerevoli lettere e biglietti di Claretta al duce, scritti attraverso i quali la donna cerca di ottenere favori per la propria famiglia e soprattutto cerca di avere la possibilità di rivedere il duce; la maggior parte di queste lettere rimangono senza risposta, fino a quando Claretta viene contattata telefonicamente dal duce il 10 novembre 1932 e viene invitata a palazzo Venezia: i due cominciano a vedersi sempre più frequentemente, tanto che diventano amanti nel 1936, pochi mesi prima della separazione di Clara dal marito. La Petacci si rivela un’amante piuttosto “comprensiva”: nonostante sia pazzamente innamorata e gelosa di “Ben”, come usa chiamare il suo adorato nella corrispondenza oggi parzialmente pubblicata e non pretende mai che il capo del governo italiano lasci la propria compagna ufficiale, la moglie donna Rachele; pretende però, a più riprese, che Benito smetta di frequentare le tante amanti di cui si circonda, cosa che il duce non riesce mai a fare del tutto. Il tradimento con le amanti, come quello con la Sarfatti e quello con la Ruspi, esasperano in Claretta un senso di possessione nei confronti dell’amato, che è obbligato a chiamare la donna ogni mezzora per tranquillizzarla e farle sapere i propri spostamenti. Il rapporto tra i due ha un carattere ossessivo, e giunge ad un bivio nel 1943, quando Claretta esausta a causa dei continui tradimenti del duce scoppia in una crisi di nervi; Mussolini, allarmato da questo atteggiamento e dai sempre più continui pettegolezzi al riguardo, decide di farla finita. Ma non si tratta di una decisione definitiva, tanto che già nel luglio dello stesso anno, prima della fatale riunione del Gran consiglio nella notte tra il 24 e il 25, Benito ha bisogno di chiamare la propria amata, probabilmente per informarla di quanto stava succedendo. La vicinanza al duce procura a Clara e alla famiglia Petacci degli indiscussi benefici economici e di visibilità, come ad esempio una villa immensa e  confinante con villa Torlonia, la dimora di Benito. Tuttavia, sarebbe miope e probabilmente sbagliato considerare il legame che ha unito Claretta a Mussolini solo da un punto di vista di rendiconto economico: questo non spiegherebbe infatti la fine atroce alla quale la ragazza è andata incontro pur di stare fino alla fine con l’uomo amato e  osannato, fine della quale Clara aveva una consapevolezza lucida.Claretta è stata una fascista convinta prima ancora di essere l’amante del duce. Ci sono più teorie che ruotano attorno alla figura della donna, una delle quali ritiene che la Petacci fosse una spia tedesca o inglese. Probabilmente non sapremo mai tutta la verità su questo personaggio così controverso, o forse, più semplicemente, non c’è null’altro da sapere: Claretta è stata una donna che è morta per amore, una donna per cui la propria vita, senza aver a fianco Benito Mussolini – uomo e politico, non avrebbe più avuto alcun senso.

Maria

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Stefania Belmondo: una ragazza d’oro

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E’ il 21 febbraio 1992 quando alle Olimpiadi invernali di Albertville, in Francia, la fondista italiana Stefania Belmondo vince il titolo olimpico. La allora ventitreenne piemontese percorre i 30 km della prova in 1:22:30:1: un risultato unico, per colei che diventerà “lo scricciolo delle nevi”. Una vittoria epica che oggi, a quasi venticinque anni di distanza, assume contorni fiabeschi: una giovane e timida ragazza, dal fisico esile che, arrivata da un piccolo paesino della Valle Stura in provincia di Cuneo, riesce a sconfiggere coloro che erano considerate le giganti del fondo. In quella marcia di 30 km tra alberi e foreste innevate, Stefania dimostra una resistenza e un coraggio da leoni, conquistandosi la vittoria. Ella mette in pratica quello che era il vero spirito dello sport, soprattutto in competizioni faticose come lo sci di fondo, cioè serietà nell’allenamento, intelligenza nel dosare le proprie forze, senza ovviamente fare uso di sostanze dopanti e tanto cuore, ma tanto, ma proprio tanto. Si, era perché oggi quello spirito ce lo siamo perso: serietà nell’allenamento, “pulizia” sportiva e morale rappresentano termini in disuso nella maggior parte degli sport di oggi: dallo sci al ciclismo, passando per la marcia e arrivando fino all’atletica. Di frequente si assiste a nuovi scandali in merito alla scoperta di nuove sostante dopanti che avrebbero dovuto by-passare i controlli, seguiti da altrettante goffe scuse da parte degli atleti che le hanno assunte o mea culpa tanto inutili quanto tristi. Gli slogan di oggi sono vincere a tutti i costi, con ogni mezzo, ricavandone il massimo di visibilità per aumentare il numero degli sponsor e i propri introiti. Così facendo si corrode lo spirito dello sport (lasciamo proprio perdere l’importante è partecipare, non vincere) e allora capita, come in questa occasione, che quando ricordiamo atleti che hanno compiuto imprese sportive così straordinarie e irripetibili traspare un senso di amarezza per tempi che non torneranno più.

Roberto Rossetti

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Ciao Pirata.

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Il 14 febbraio 2004 Marco Pantani viene rinvenuto cadavere nella sua camera, in un motel a Rimini. Il campione romagnolo è stroncato da un attacco cardiaco in seguito a overdose di cocaina: il corpo è sdraiato, la testa reclinata. La stanza è sottosopra con scritte sulle pareti e su ogni angolo in cui esista un minimo spazio per riportare un pensiero, carta d’identità compresa. Ciò che Marco scrive non sono pensieri, ma urla rimaste sorde, grida di un uomo solo in cerca di aiuto, ma abbandonato dal mondo, anche da se stesso. Solo, come sempre, come ancora una volta, come l’ultima in quell’anonimo motel. Solo come quando in sella alla sua bicicletta scalava le vette del tour e del giro, che lo consacrarono nell’olimpo del ciclismo. Per quella bandana che indossava per proteggersi la testa calva dal sole, i tifosi gli attribuirono il soprannome di pirata: tutti, ma proprio tutti, sanno che i pirati sono uomini impavidi e coraggiosi, i primi a gettarsi nella mischia, a volere tutto. Pantani era sì un pirata, ma atipico: fragile, schivo e riservato, arrossiva anche a cantare la sua “Romagna mia”. La fragilità dell’uomo era compensata dalla tenaci dell’atleta, sulla quale aveva fatto leva più volte per superare i momenti più difficili: come quell’incidente alla Milano-Torino nell’ottobre del 1995, decretato dai medici come la fine della sua carriera. Marco si allenò giorno e notte e tornò più forte di prima. La prima volta che si rimise in sella lo fece del garage di casa sua, a Cesenatico, con presenti i genitori e un amico che riprendeva l’evento con una video camera: un giro del perimetro dell’autorimessa gli bastò per sentire di nuovi quelle vecchie sensazione che solo la bici gli sapeva far provare, “Avete visto che so ancora andare in bici”. Il pirata tornò per vincere tutto, giro e tour nello stesso anno. Nel 1999 un altro colpo, questa volta fatale: a Madonna di Campiglio, Marco Pantani viene presentato al mondo come un ciclista dopato, un corrotto, esposto al pubblico ludibrio; scortato dai carabinieri fuori dall’hotel commenta mestamente: “Sono caduto tante volte e mi sono sempre rialzato, ma questa volta non mi rialzerò più”. Aveva ragione, Pantani è rimasto lì, a Campiglio, a quel tasso di ematocrito pari a 52, aveva pagato da solo, per un intero mondo che, pochi anni, si scoprì essere ancora peggiore, tra trasfusioni di sangue e assunzione di farmaci dopanti. Allora ci si rese conto che Pantani aveva pagato da solo e troppo, ma era troppo tardi per recuperare il campione. Ma il ciclismo è fatto di sensazioni, di amore e di passione e i ricordi più belli di Pantani sono quelli coltivati dai tifosi nella memoria del nostro paese: il campione che ai piedi della salita guardava gli avversarsi, sistemava la bandana, controllava la marcia della bici, spostava nel mani in basso sul manubrio, si alza sui pedali e scattava. Oggi per Marco e su Marco rimane sono tanta tristezza e pietà per un uomo solo, sfruttato all’apice della carriera e poi abbandonato. Gotti vinse il giro nel 1999 con merito, ma sulle strade non sentiva quello che sentivi tu:

“Le emozioni più forti le ho provate lungo le strade, quando sentivo la gente che gridava così tanto Pantani che mi veniva il mal di testa”

Marco Pantani

Roberto Rossetti

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La storia incredibile del Comandante Diavolo

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Il 7 febbraio 1909 nasceva a Piacenza Amedeo Guillet, da Alfredo, colonnello dei Reali Carabinieri, e Franca Gandolfo. La sua famiglia era di provenienza aristocratica piemontese di origine sabauda. Il barone Amedeo Guillet frequentò l’ Accademia Militare di Modena e divenne un brillante ufficiale di Cavalleria. Conduceva una vita spensierata che lo portò ad importanti frequentazioni sociali internazionali. Mentre  si allenava con la squadra olimpica di ippica per le olimpiadi del 1936 l’ Italia iniziò la sua espansione coloniale nell’ Africa orientale. Il senso del dovere e la fedeltà alla Corona unite ad un fervente patriottismo allontanarono il lusso di una vita agiata per avventurarsi in un percorso senza certezze. Con l’ approdo nel corno d’Africa nell’ agosto del 1935, per Amedeo iniziò la sua storia in quel continente che durò otto anni. Il 3 ottobre 1935 iniziò la guerra coloniale e Amedeo fu messo a capo di 200 combattenti libici chiamati spices, mercenari arrivati con i loro cavalli, autonomamente armati e pagati 10 lire al giorno. Per poterli comandare capì che avrebbe dovuto conoscere l’ arabo, quindi si unì ai bambini della scuola coranica e imparò l’ arabo. Con queste basi, riuscì ad instaurare un rapporto di stima reciproca con i suoi miliziani. Egli non perse mai occasione di rimarcare la sua proverbiale fortuna. Si distinse in un combattimento corpo a corpo sull’ altopiano di Selaclacà, si salvò da un proiettile deviato dalla sua sella, fu ferito ugualmente ad una mano ma tornandone vincitore acquisì la sua prima medaglia. Mentre nel maggio del 1936 gli italiani entrarono ad Addis Abeba e conquistarono l’ Etiopia Amedeo fu chiamato per andare in Libia. Fu ingaggiato da Italo Balbo con il compito di addestrare i cavalli per la cerimonia in occasione dell’ arrivo in Libia di Mussolini. Nella seconda parte del 1936 dovette tornare in Italia per essere operato ad una mano. Avrebbe dovuto trascorrere dieci giorni che diventarono poi un mese di convalescenza a Napoli dove conobbe Beatrice, una bellissima ragazza di cui si innamorò. Desiderò  sposarla, ma al tempo il fascismo aveva introdotto la legge matrimoniale. Se Amedeo si fosse sposato sarebbe automaticamente aumentato di grado. Per non cadere nell’ equivoco di un matrimonio a tale scopo, egli preferì non sposarla nonostante i suoi sentimenti. Guillet decise che le stellette le avrebbe potute ottenere per meriti di guerra e non alle spalle di una donna, per questo motivo nell’ estate del 1937 andò a combattere in Spagna a capo di una squadra di arditi. L’ avventura spagnola segnò il primo di una serie di mimetizzazioni che caratterizzarono la vita di Guillet. Indossando pantaloni alla zuava e scarponi da montagna Amedeo Guillet cambiò identità diventando Alonso Gracioso e guidò l’ assalto a San Pedro del Romeral che spianò la strada alla conquista di Santander. Francisco Franco per tale impresa lo premiò con medaglie e decorazioni, ma poi ferito ad una gamba dovette tornare in Africa. Venne assistito in un ospedale a Tripoli dove conobbe una studentessa libica di medicina, ma essendo ebrea per le nuove leggi raziali avrebbe dovuto lasciare gli studi. Amedeo trovò intollerabile questa soluzione e si attivò con successo presso Italo Balbo per salvare la ragazza. Nel frattempo dentro di sè iniziò a mettere in dubbio i dogmi dell’ Italia fascista in nome di una giustizia superiore. Venne la volta di partecipare in prima persona ad una missione molto delicata in Eritrea. Il Duca d’ Aosta gli conferì l’ incarico di creare una milizia per difendere la popolazione dal fenomeno del banditismo. Un giorno aiutò gli abitanti di un villaggio a ritrovare dei capi di bestiame rubati e in segno di riconoscenza il capo tribù lo accolse nella sua capanna. Li conobbe la figlia del capo, Khadija, di sedici anni. Una giovane molto determinata. Amedeo fece breccia nel cuore della ragazza. Quando si congedò dal capo villaggio alcuni lo seguirono per combattere con lui, tra loro  anche Khadija. Per un periodo fu piuttosto refrattario ai gesti di affetto della ragazza. Un giorno uno degli spices molto amico di Guillet morì in un combattimento e di notte fu colto dalla tristezza. Khadija pianse con lui e mentre Amedeo tornava a letto, la ragazza prese posto sul tappeto. Intenerito, la fece entrare nel suo letto. Iniziò così una relazione sentimentale tra i due. Nel frattempo la guerra che conduceva si discostava dai suoi principi assimilati in accademia e le sue convinzioni generali iniziarono a vacillare. Doveva combattere contro i ribelli guidati dal Negus d’ Etiopia, e l’ ordine da Roma era quello di ucciderli una volta catturati. Egli non se la sentì di rispettare tale ordine e propose ai catturati di combattere al suo fianco. Il suo discorso fu molto chiaro, chi vuol venire venga, ma chi tradisce verrà ucciso. E anche in quella occasione ebbe l’ approvazione del Duca d’ Aosta. Nel giro di due mesi costituì così una sua banda armata a cavallo. Intanto il 10 giugno 1940 l’Italia entrò in guerra. La situazione in Africa si fece subito complicata, gli inglesi stavano avendo la meglio sulle truppe italiane. Nell’ aprile del 1941 la situazione italiana era già irrimediabilmente compromessa. Gli italiani sconfitti lasciarono Asmara agli inglesi. Il tenente Guillet senza più ordini e riferimenti dai suoi superiori prese decisioni inaspettate. Nonostante il comandante in capo avesse firmato la resa Guillet non si fermò. La sua idea era di sfiancare il nemico. Resistere per tenere occupata la parte dell’ esercito nemico e non farlo andare in Libia per combattere contro gli italiani su quel  fronte già disastrato. Sentendosi abbandonato dalle alte gerarchie militari per Amedeo giunse il momento di cambiare identità. Si spogliò della divisa militare italiana, per vestire abiti arabi. Cambiò nome in Ahmed Abdallah Al Redai, per spiegare la sua presenza in Africa disse di essere uno yemenita bloccato lì dopo il crollo dell’ impero italiano. Fu anche una trasformazione spirituale, credeva in Dio e gli era indifferente pregare con il rituale cattolico o quello musulmano. Per lui fu fatto il paragone con una figura leggendaria Lawrence d’ Arabia. Arrivò quindi il momento in cui Amedeo decise una manovra spericolata. Nascoste le sue truppe nel secco greto di un torrente attaccò a sorpresa la fanteria inglese sapendo che i carri armati nemici non avrebbero potuto rispondere per non colpire la propria fanteria. Si venne a creare una tale confusione che la battaglia durò diverse ore e la vinse. Da quel momento iniziò a circolare la notizia di quella impresa, la stampa iniziò a parlare delle imprese del comandande diavolo, il suo soprannome. I servizi segreti inglesi nella persona di Max Harari rimasero affascinati dal report su Guillet nonostante fosse iniziata la caccia all’ uomo per tenente italiano nel 1941. Il maggiore Harari prese a raccogliere informazioni su qualsiasi aspetto della vita di Guillet. La sua taglia era di mille sterline. Amedeo sempre travestito da arabo andava abilmente nel quartier generale inglese a denunciare il tenente Guillet, per depistare e intascò anche i soldi della sua stessa taglia. Una sera sentendo una musica italiana Amedeo venne colto da nostalgia, ma la sua casa era stata già stata circondata dalle truppe inglesi. Amedeo saltò dalla finestra e si mise in fuga verso la collina, nonostante le urla degli inglesi che gli intimassero di arrendersi. Uno sparo in aria e poi un sergente inglese prese la mira, ma a salvargli la vita fu un operaio della fattoria dicendo che quell’ uomo era solo un musulmano sordo che stava andando a pregare. Amedeo sentì tutto e arrivò in cima alla collina e crollò prostrandosi nella preghiera. Ferito e stanco in quei giorni capì che non poteva continuare la messa in scena. Consigliato dai suoi decise di sciogliere la banda per scappare in Yemen, paese neutrale amico dell’ Italia. Dovette lasciare anche tra le lacrime Khadija. Solo uno dei suoi uomini lo accompagnò, lo yemenita Daifallah. Raggiunta Massaua si infilarono in una baraccopoli e iniziano a fare i lavori più umili. Fece l’ acquaiolo, vendette l’ acqua a una lira la ghirba, e curiosamente riuscì a farsi degli amici e a guadagnare di più che da sottotenente in Italia. In breve tempo poté pagarsi così il trasferimento nello Yemen. Guillet e Daifallah si accordarono con alcuni contrabbandieri per un passaggio, ma dopo un giorno di navigazione i contrabbandieri temendo di essere denunciati dai due per una partita di fucili rubati e nascosta sulla nave, buttarono i due in mare. Sfuggendo ai pescecani i due raggiunsero a nuoto la penisola di Buri e si addentrarono nel deserto. Approdarono stanchi e assetati nei pressi di un pozzo dove incontrarono dei pastori nomadi che invece di aiutarli li picchiarono e li lasciarono sanguinanti sotto il sole del deserto. Disperati continuarono il loro cammino, perdendo anche la rotta. Una sera credendo di essere prossimi alla morte e convinti di avere una visione mistica assaporarono la salvezza. Non fu proprio così. Al Sayed Ibrahim al Yemani era un mercante che si recava in città. Come un buon samaritano soccorse i due, fece marcia indietro e li portò a casa sua. Li sfamò e propose a Guillet di sposare la figlia e vivere li. Per un attimo fu tentato dopo tutta la sofferenza patita, ma poi da piemontese testardo decise di ripartire. A Massaua spacciandosi per uno yemenita malato di mente riuscì a ottenere un passaggio regolare per lo Yemen. Nel dicembre 1941 arrivò nel porto di Odeida. Lì capì che poteva fare lo yemenita in Etiopia ma non in Yemen. L’ufficiale portuale si insospettì e lo mandò in prigione accusandolo di essere una spia inglese. Ironia della sorte furono proprio gli inglesi a salvargli la vita. Appena vennero a conoscenza dell’ arresto di Guillet chiesero subito allo Yemen di estradarlo. Gli yemeniti si insospettirono sul perché quel prigioniero mal ridotto fosse così importante per gli inglesi. Il sovrano yemenita, l’ imam Yahya, si incuriosì e lo invitò a palazzo facendosi raccontare la sua storia. Il sovrano rimase ben impressionato e le sue capacità ippiche gli salvarono la vita. Non solo lo liberò dandogli una mansione speciale, “Gran Maniscalco di Corte”, ma strinse un rapporto di amicizia con il giovane italiano e lo nominò precettore per i suoi figli. Amedeo rimase un anno alle sue dipendenze ricevendo uno stipendio da colonnello. La voglia di ripartire ebbe ancora la meglio. La Croce Rossa italiana a quel tempo metteva a disposizione una nave per raggiungere l’ Italia. Raggiunse Massaua e ancora una volta dovette cercare di sfuggire agli inglesi. I suoi amici del porto non lo avevano dimenticato e lo aiutarono a intrufolarsi furtivamente sulla nave. Il Capitano della nave dapprima credendolo arabo non lo volle, poi Amedeo gli spiegò la situazione e allora ottenne di nascondersi nel manicomio della nave per tutto il viaggio. Il 2 settembre 1943 arrivò a Roma. L’ Italia era diversa da quella che aveva lasciato. La prima cosa che fece fu quella di raggiungere il comando dell’esercito a Roma, ma qui scoprì che nel frattempo da Tenente era diventato Maggiore e che avevano cercato in vano di comunicarglielo senza trovarlo. In quel momento Amedeo mantenne nascosta la sua presenza in Italia alla famiglia e a Beatrice, volle mantere invece la promessa fatta ai suoi commilitoni in Africa. Scelse la via più incredibile, quella di continuare a combattere. Il ministero della guerra autorizzò Guillet nel suo piano, ovvero raggiungere l’ Etiopia e sollevare le popolazioni a lui amiche e continuare la guerra. Pochi giorni dopo l’ armistizio cambiò le cose, gli inglesi divennero alleati dell’ Italia. E quindi tutto finì. Andò a cercare il Re che nel frattempo si era trasferito a Brindisi. Il Re lo accolse e dopo averlo ringraziato per il servizio reso lo lasciò alla vita civile. Da quel momento Guillet sentì di dover affrontare un appuntamento troppe volte rimandato, quello con Beatrice. La prima cosa che fece fu quella di raccontarle il suo passato sentimentale con Khadija. Beatrice pianse, ma riconobbe che forse lei non sarebbe stata in grado di fare lo stesso della brava ragazza africana. Il 21 settembre 1944 Amedeo e Beatrice si sposarono a Napoli, ebbero due figli Paolo e Alfredo. A soli 37 anni Guillet venne promosso Generale. Accettò di collaborare con il servizio segreto militare. Riuscì a salvare alcuni archivi importanti verso la conclusione della guerra. Alla fine del 1945 per lavoro tornò in Eritrea, ma ebbe anche un incarico affidatogli dalla moglie. La richiesta era quella di rivedere Khadija e donarle un braccialetto con un solitario per ringraziarla di tutto ciò che aveva fatto per lui, e riconoscendo che se la ragazza africana fosse arrivata prima nella vita di Amedeo avrebbe meritato lei il suo posto. I due si incontrarono in una sala da the, fu un momento molto intenso. Entrambi consci che quella era l’ ultima volta che si sarebbero visti. Stetterò alcune ore mano nella mano senza parlare, poi Khadija strinse il bracciale e lo salutò senza voltarsi con fierezza e dignità. La vincenda di Guillet non è conclusa. Negli anni cinquanta Amedeo Guillet sfruttando l’ esperienza acquisita divenne un diplomatico. Fu ambasciatore d’ Italia in Egitto, Yemen, Giordania, Marocco e in India. La fortuna continuò ad accompagnarlo come quando sopravvisse illeso a due incidenti aerei nello stesso giorno. Fu testimone diretto e incolume di due colpi di stato in Yemen e Marocco. La missione per lui divenne quella di promuovere il dialogo tra cristiani ebrei e musulmani. Tra gli aspetti curiosi della sua vita occorre menzionare il fatto che Amedeo conservava nella sua casa la reliquia di una spina della corona di Cristo, e che possedesse nella sua scuderia l’ ultimo discendente del cavallo di Maometto. In Italia fu quasi uno sconosciuto, mentre in Inghilterra venne onorato anche da chi lo combattè come il Maggiore Max Harari. L’ agente segreto britannico Vittorio Dan Segre che gli diede la caccia in guerra divenne con gli anni suo amico e biografo. Nel novembre del 2000 Carlo Azeglio Ciampi, gli conferì la massima onoreficenza italiana, la Gran Croce dell’ Ordine Militare della Repubblica. A 91 anni Amedeo tornò in Africa per ripercorrere alcune tappe della sua guerra. Gli eritrei lo accolsero come il primo patriota dell’ indipendenza eritrea. Fu ricevuto dal presidente degli eritrei con gli onori di un capo di stato. Poi venne la volta di rivedere un uomo per lui fondamentale. Il mercante Al Sayed Ibrahim al Yemani. L’uomo non riconobbe l’anziano italiano e fu dispiaciuto che per il crollo del pozzo non poté offrirgli da bere. Nonostante ciò gli raccontò una storia che negli anni ha ripetuto a chiunque avesse incontrato, ovverosia di quando salvò dal deserto due yemeniti moribondi, di come si affezionò ad uno di loro. Concluse affermando che per lui furono inviati da Allah che spesso mette alla prova la fede dei suoi fedeli ponendo sul loro cammino incontri speciali e miracolosi. Amedeo si riconobbe immediatamente in quel racconto, ma non volle distruggere il ritratto dei due vagabondi inviati da Dio. Amedeo gli disse che prima o poi i due pellegrini sarebbero riapparsi magari per aggiustare il suo pozzo. Congedatosi pagò degli operai che quella stessa notte sistemassero il pozzo del vecchio. Amedeo Guillet morì il 16 giugno del 2010 a Roma. La sua leggenda è rimasta sconosciuta, ironia della sorte, proprio nel suo paese, l’ Italia. Un uomo che fu soldato, guerrigliero, agente segreto, diplomatico, scaricatore di porto e stalliere. Un uomo che ha attraversato un secolo con coraggio passione e molta umanità.

Ettore Poggi

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